Aluc: il fashion brand che crede nell’upcycling

In 60 nazioni, il 24 Aprile 2014 si celebrava il Fashion Revolution Day in memoria della catastrofe di Rana Plaza, il complesso di fabbriche tessili crollato a Dacca, capitale del Bangladesh, sotto cui hanno perso la vita più di 1200 persone per altrettanti feriti – di quell’insopportabile tipologia di ferite che non si rimarginano. La strage svelò al mondo le terribili condizioni di lavoro e di sfruttamento degli operai tessili del luogo, chini a produrre no-stop in un ambiente non sicuro, anche per marchi del nostro Occidente.

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Da qui l’approfondita puntata di Presa Diretta, ancora visibile sui canali Rai, e le schiere di attivisti volti a diffondere un messaggio di cambiamento e giustizia. Ne è testimone la campagna social “Who made your clothes?”, con tanto di hashtag #insideout e Instagram selfie, dove i consumatori hanno mostrato l’etichetta – ciò che attesta (sempre?) provenienza e produzione – dei loro capi.

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Ma oggi, quando una campagna diventa così virale, siamo sicuri non perda di valore e concretezza? Siamo sicuri che tutti i social addicted che hanno indossato le loro magliette alla rovescia, oggi compiano solo acquisti consapevoli? È un po’ come chiedersi se tutti quelli che si sono tirati le secchiate d’acqua in questi giorni, abbiano poi effettivamente donato per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica. Non lo sapremo mai, ma è come se lo sapessimo: no.

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Eppure, in questo momento di sovrapposizione industriale e – quasi a combaciare – di sovraesposizione mediatica, qualcuno che opera nella giusta direzione, rispondendo alle mode con azioni responsabili e ragionate, c’è. Il suo nome è Aluc, ha 4 anni e abita a Berlino. Il suo stile di vita è da copiare: non ammette gli sprechi, crede nel risparmio delle risorse e ancor più nel concetto di upcycling.

L’upcycling non significa propriamente recycling, ma ha comunque a che fare coi materiali di scarto derivati dalle lavorazioni industriali, materiali che vengono trasformati in nuovi e originali prodotti. Il fashion brand Aluc – e i tre designer che lo hanno fondato nella primavera del 2010 – utilizza così gli avanzi dei produttori tessili per realizzare le proprie camicie, pezzi unici per uomo e per donna, muniti di uno speciale colletto regolabile.

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Qui, ogni cliché estetico che vuole la moda sostenibile brutta e sciatta, svanisce: le bluse e gli accessori Aluc si muovono all’insegna della creatività dal momento che uno o più scampoli di tessuto permettono combinazioni sempre diverse per un risultato sempre a chilometro zero e sempre d’alta qualità. Attraverso le collaborazioni con gli innovativi “upcycling producers” in Bulgaria e Polonia, il brand tedesco lavora in maniera trasparente lungo l’intera catena di produzione.

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Dall’apertura del primo Upcycling Fashion Store nel quartiere Mitte di Berlino (novembre 2011), Aluc è cresciuto e vuole crescere ancora continuando a portare la propria filosofia in giro per il mondo. Per farlo, questa volta niente hashatag o pazzie da social network, ma puro e semplice crowd founding, perché “I believe it starts with individual”, dice l’aforisma di Bruno Peters scelto per il video esplicativo “Aluc – startnext”. E il team del marchio lo ripete: “Noi crediamo nell’individuo e che ogni singola azione responsabile abbia il potere di condurre a un vero cambiamento”. Tentar non nuoce, upcycling revolution.