
Una ricerca duratura nel tempo dedicata all’esplorazione delle emozioni. L’elaborato tentativo di rendere tangibile il sovrannaturale attraverso la forza comunicativa degli specchi. L’autoritratto come forme d’arte per ritrovare se stessi ed esprimere il complesso universo interiore. A metà tra fotografia e ritualità religiosa, Kalliope Amorphous, fotografa i propri stati d’animo e li trasforma in potente arte visiva, ricca ed evocativa.
Fotografa, stilista e modella, Amorphous esplora l’identità mitologica della acqua e degli specchi, della vita e della morte, del bianco e del nero. E racconta ad Enquire le ombre della sua vita attraverso magnifiche immagini.
L’autoritratto come forma d’arte. Quando hai scoperto di essere il soggetto perfetto per i tuoi scatti?
Ho inizialmente scelto me stessa come soggetto delle mie fotografie per comodità. E andando avanti, mi sono resa conto che l’autoritratto era l’unico modo con il quale sarei riuscita a controllare realmente la mia visione. Essere “il soggetto” di ogni mio scatto è diventato parte integrante del mio processo creativo e ciò mi consente di mantenere le emozioni nella loro forma più autentica.
Inoltre, per me è davvero essenziale lavorare da sola. Ho bisogno di immaginare e sviluppare il progetto in maniera del tutto privata e solitaria. Dal mio punto di vista e nel mio universo ermetico. Proprio per questo credo che non potrei mai diventare una fotografa commerciale.
L’ispirazione per i tuoi lavori: Celebri artisti, quotidianità o stati d’animo? Quali sono le tue fonti?
Le principali ispirazioni provengono direttamente delle mie esperienze personali, dall’attenta osservazione, dal modo in cui vivo emotivamente le situazioni e dalla conseguente necessità di rendere tangibili queste emozioni – fissandole in qualche modo alla realtà. Spesso percepisco le cose in maniera estremamente profonda, tanto che a volte sono destabilizzanti.
Tramite l’arte visiva riesco a sintetizzare l’intensità delle mie complesse emozioni in fotografia, trasformando i miei introspettivi stati d’animo in una visione comprensibile al mondo esterno.
Nella tua fotografia si mescolano alienazione e inquietudine, il perfetto incontro tra una fervida immaginazione e la più malinconica delle realtà. La tua necessità di fotografare nasce dal desiderio di raccontare una storia, di cogliere un attimo o di rappresentare uno stato d’animo?
Si tratta di una combinazione di questi tre desideri. Sicuramente, nelle mie fotografie si può riscontrare l’elemento narrativo, ma c’è anche la forte necessità di catturare ciò che non è tangibile, afferrandolo mentre è “immobile” nello scorrere di un attimo. Probabilmente la ragione scatenante di questa mia ricerca è di rendere arte ciò che si cela nell’intimità umana.
Sicuramente, desidero materializzare l’invisibile. Prima di dedicarmi alla fotografia amavo comporre poesie, quindi la mia mente sfrutta un processo poetico prima di arrivare alla creazione immaginifica che ho in mente. Sarà perché ho sempre percepito la fotografia come poetica visiva.
Il tuo percorso creativo spazia nei generi mantenendo come saldo riferimento l’astrazione visiva e psicologica. A volte ritrai una fata intrappolata nel limbo, in altre re-immagini la notorietà come un fantasma evanescente e altre ancora scegli l’acqua come memento di nascita e morte. Qual’è la tua ricerca e a cosa mira?
I principi utilizzati nella danza performativa Butoh sono sicuramente saldi riferimenti nello sviluppo di un’idea. Prima di leggere Tatsumi Hijikata, molti anni fa, non avevo idea che ci fossero metodi e pratiche così articolate per ottenere ciò che io cerco nella mia arte. Mi sembrò di essere tornata a casa, di aver ritrovato il mio percorso e improvvisamente meno aliena. Seguo tutti i principi della danza Butoh – tranne per il fatto che io creo immagini statiche.
Hijikata ideò un metodo visivo che connetteva realtà diverse come la natura, gli animali e gli spiriti dei morti. Sviluppò pratiche rituali – simili ad uno sciamano – affinché in uno stato di trance l’arte si manifestasse. L’intero processo era inaspettato e di pura improvvisazione, proprio come nella danza Butoh, dove l’enfasi dei movimenti e dell’espressione sono un mezzo esplorativo attraverso il quale le ombre prendono possesso dell’individuo per sperimentare l’esistenza umana.
Un processo molto simile a quello che io adotto. C’è una connessione forte tra il mio processo creativo e le mie pratiche spirituali.
La perfetta deformazione è la protagonista di uno dei tuoi ultimi lavori, in “Glass Houses” concentri l’attenzione sulla ricerca delle emozioni umane sotto forma di immagine. La luce, uno specchio flessibile e la tua macchina fotografica ti sono bastate per ricreare la paura, il desiderio e la vulnerabilità. Spiegaci l’idea, il processo creativo e la scelta degli scatti che meglio rappresentavano il concetto primordiale dal quale sei partita.
Sono molto attratta dagli specchi e dall’acqua. In molte culture, le superfici riflettenti sono considerate un portale che connette il mondo dei vivi a quello dei morti. Certamente la lente della macchina fotografica e gli specchi sono similari ed io sono affascinata dalla loro interazione.
In “Glass Houses” volevo immortalare, attraverso la distorsione di un’immagine allo specchio, un particolare secondo dell’emozione umana. Ho assunto una posa, un’espressione per ritrarre l’emozione che avevo in mente ed ho scattato scegliendo un tempo lungo. Indirettamente ho posto delle domande allo specchio alle quali “esso” mi ha dato più risposte ed una di esse rispondeva esattamente e visivamente alla mia domanda.
Una serie di inaspettati sincronismi perfetti si incontrano per dare una risposta visiva ai miei quesiti. Scattare, ad un certo punto, sembra quasi una forma di divinazione.
Sogno e catarsi. Identità, tempo e consapevolezza. Questi temi si susseguono nella tua sperimentazione che lascia largo spazio a numerosi interrogativi sulla natura umana e sul significato del tuo lavoro. Quali emozioni vuoi suscitare nell’osservatore?
Noi tutti siamo assorbiti dalla superficialità, dall’aspetto esteriore delle cose e dalla loro facciata. Direi che se i miei lavori, al di là del loro aspetto, riescono ad evocare qualcosa di più primordiale io sono molto felice.
Un cognome che sembra fare il verso alle tue visionarie fotografie. Artista e Fotografa ma anche una giovane donna. Chi è realmente Kalliope Amorphous?
Il mio cognome è basato sulla mia iper-consapevolezza di essere un’essenza mutabile, un’effimera forma di vita passeggera. Mi ritengo più autentica quando sono in grado di dare forma ad un’emozione. L’idea di essere una forma amorfa è collegata anche all’importanza che do alla dualità e alla cosciente integrazione della contraddizione: luce e buio, bellezza e orrore, nascita e morte. E’ per questo motivo che i miei lavori sono ricchi di tematiche opposte tra loro.
Sono alla continua ricerca del modo in cui integrare le opposizioni. Inoltre cerco costantemente di rappresentare la natura temporale delle cose dando grande spazio alla decadenza, alla disintegrazione e all’astrazione sia nei miei autoritratti sia nella mia fotografia sperimentale. Quando ho iniziato questo percorso – molti anni fa – ero certa di essere diversa dai miei lavori, per questo dichiaravo sempre che le mie fotografie non mi rappresentavano affatto. Crescendo ho capito che è l’esatto contrario e che i miei autoritratti sono il frutto delle esperienze di vita fatte fino ad oggi e del mio mondo interiore. Non sono diversa dalle mie foto.
Quindi per rispondere alla tua domanda, chi sono davvero? Io sono una sorta di artista misantropa. La mia vita è non-convenzionale in ogni suo aspetto e percepisco le emozioni intensivamente. Ho un senso dell’umorismo brutale ed io sono tremendamente onesta. Mi appassiono alle cose tanto facilmente quanto mi annoio di esse. L’arte per me non è un passatempo ma un modo di vivere la mia vita 24 ore su 24 ed oggi, che ho 40 anni, sono felice dell’evoluzione della mia esistenza e che sia l’arte il principale scopo della mia vita.
Progetti imminenti o futuri?
Quest’anno spero di completare un progetto nel quale utilizzo lo specchio appartenuto ad una delle attrici più celebri del ventesimo secolo. È un progetto del quale sono molto orgogliosa, ma sto aspettando il momento giusto in cui mi sento pronta per lavorarci su.
Inoltre esplorerò più approfonditamente la tecnica dello specchio che ho utilizzato in “Glass Houses” per ottenere nuove visione attraverso questo particolare metodo. Amo molto questa tecnica e credo che valga la pena esplorarla a pieno in nuovi scatti, non limitandola ad una sola serie.