
Uh, uh, maybe you’re right: when the party’s over you got no way to go –Morcheeba
Forse avevano ragione i Morcheeba un decennio fa, la festa è finita e ci sentiamo un po’ persi. Tutti quanti.
Magari ce ne accorgiamo in una giornata di sole nordico, cercando gli orari di un FlyBus che ci porterà in aeroporto, tra paesaggi lunari e strade troppo dritte e scorrevoli per ritardare la nostra partenza.
Cinque giorni di Festival, vento, incontri, risate, hangover, musica, band, concerti, sesso, corse, ghiaccio, hot dog, birra, scoperte e chissà quante altre cose.
Ma la parola giusta è ovunque.
Sì, perché l’Iceland Airwaves ha soprattutto questo di grande, ti fa stare in mezzo alla musica dappertutto: in una nazione così piccola, in una città dove quasi tutto è ad una ragionevole walking distance, il genio islandese ha dato vita a uno dei festival più appassionanti del panorama mondiale.
Come ci è riuscito? Gli ingredienti sono semplici: oltre 200 band (tra grandi nomi e prime assolute, disdette e conferme che più loud and clear non si può), spettacoli racchiusi come perle in venues storiche, sale nuove, bar, librerie, café, ristoranti, ostelli, hotel, musei e perché no, un bell’hangover party in una Blue Lagoon pettinata da un uragano guastafeste (eh già, una sorta di Sandy c’è stato anche qui, con venti fino a 150 Km/h, ma i cittadini lo definiscono solo “inverno”).
Rock-bus che girano per la città, navette organizzate per aiutare i passanti a raggiungere i diversi luoghi del divertimento senza rischiare di rompersi la spina dorsale tra raffiche di vento e ghiaccio, e non solo. Aggiungete un pubblico eroico che si dà appuntamenti random downtown, che si scatena su qualsiasi ritornello senza creare disagi a nessuno, coriandoli che volano e luci che rimbalzano sugli strumenti.
Riuscire a vedere tutto è impossibile, si devono fare delle scelte e, credeteci, a volte può essere la cosa più difficile al mondo. E triste. Ma ci pensa la musica a risollevare gli animi, ci pensano le note a farci ripartire ogni volta. È così che si riesce davvero ad essere “ovunque”: stando a contatto con la musica, tutto il giorno, tra official e off-venues, con i nuovi CD comprati e quelli scambiati, con le cuffiette o con quello che viene trasmesso nei negozi di tutta la città. Non si scappa alla musica in questa realtà, e nessuno sembra aver voglia di farlo per fortuna.
Anche noi abbiamo dovuto fare una selezione, in parte ha pagato, in parte meno. Come ogni cosa però, ci ha lasciato ricordi preziosi e insegnato molto: abbiamo imparato che se hai un bracciale press-photo puoi sentirti rispondere la maggior parte delle volte “I don’t care, go back in the queue” dalla security dell’evento, trovando spesso la strada sbarrata verso il tuo lavoro, e lo farai, con il sorriso. Abbiamo imparato che se fai un programma troppo fitto di impegni non riuscirai a goderti nulla: come il caffé, che qua viene bevuto ad ettolitri. Devi saper aspettare che si raffreddi l’animo altrimenti saranno solo scottature. Abbiamo imparato che puoi vestirti a strati, puoi usare la tattica del dress to impress, oppure puoi fregartene e metterti le prime cose che ti capitano addosso, ma troverai sempre una persona del posto che va in giro in maglietta in beffa alle temperature polari percepite dai comuni essere umani – dopotutto sono vichinghi, no? – e ti sentirai sempre goffo e infagottato come un pupazzo di neve cicciottello (e, sorprendentemente, la tua temperatura corporea sarà molto vicina alla sua). Abbiamo capito che accalcarsi in prima fila può farti vedere da vicino una band, ma se vuoi sentirla suonare devi andare in zona mixer; che se mangi waffles, hamburger, hot dog, sandwiches e bevi birra, un qualche tipo di soda qualsiasi e cioccolata calda puoi non ingrassare di un etto se salti come un matto ai concerti più belli.
Of Monsters and Men, Retro Stefson, For a Minor Reflection, FM Belfast, Purity Ring, Sin Fang e Sòley, Pascal Pinon, The Echo Vamper, Highasakite, Shiko Shiko, The Eclectic Moniker, Me and my Drummer, Mikael Lind e Olafur Arnalds, Cercueil, Tilbury, Low roar, The Vaccines.
Sono solo alcuni dei gruppi che ci hanno emozionato, tenuto compagnia, fatto ridere, ballare e immergere in entusiasmi sonori non indifferenti. Abbiamo sicuramente dimenticato qualcuno.
Come? I Sigur Rós?! Beh, no, non ce li siamo dimenticati, li abbiamo visti per l’ennesima volta e non crediamo ci sia bisogno di una ulteriore recensione per il loro genio totale: quello che forse in molti performer non hanno, quello che differenzia davvero un artista da un semplice appassionato di musica (o di successo). Poco importa, il Festival è stato una bomba, e ne possiamo parlare per ore e ore, tanto il risultato finale sarà sempre quello legato alla parola “ovunque”, qualcosa di inesplicabile. Perché:
Sono stato ovunque, stando con te. È una cosa che non riuscirò a spiegare mai a nessuno. Baricco.
www.icelandairwaves.is
www.reykjavikboulevard.com