Intima, evocativa, delicata: Anna Morosini

Forse non bastano le parole per presentare Anna Morosini, forse le sue fotografie esprimono meglio, al massimo, il suo talento. Anna è una fotografa nata a Foligno, classe 1987. Laureanda in lettere moderne, è stata nostra ospite con il progetto a otto mani «Fourlines»; a distanza di qualche mese la ritrovamo per parlare dei suoi progetti personali.
Quella di Anna è una fotografia intima e personale, fatta di corpi femminili e di luce, di anime e di una capacità compositiva che solo di rado è possibile trovare, con questa qualità. Non fotografie, ma quadri, come ci racconta lei stessa. Una fotografia da ammirare, che si sente addosso, tra le pieghe dei pensieri e che mostra da subito una firma distintiva, unica, che ha molto da raccontare.
Non resta che ascoltare quello che Anna ha da raccontarci.

Se dovessi scegliere tre parole per definire la tua fotografia, quali sarebbero?
Intima, evocativa, delicata (pur nella sua tendenza all’oscuro).
Come scopri la passione per la fotografia? Quel che colpisce più nei tuoi lavori è l’alta qualità e lo studio, quasi pittorico, dei singoli quadri. Questo deriva da studi specifici o, diversamente, «practice makes perfect»?
Non ho mai frequentato corsi o scuole di fotografia, in fondo mi è sempre piaciuto fotografare e basta, con lo stesso tipo di naturalezza nell’approccio di quando ad una certa età si impara ad andare in bicicletta.  Ero bambina e mio papà, ovunque andassimo, fotografava. I primi rudimenti tecnici (forse gli unici non appresi empiricamente) me li ha forniti lui. Per il resto esperienza e studio nel senso di “apprendimento nell’esperienza”. E probabilmente, soprattutto riguardo il lato “pittorico” dei miei lavori, una certa propensione: amavo disegnare prima di fotografare. E il processo di creazione di una fotografia è per me pressoché identico a quello di un dipinto.
Qual è la tua prima memoria fotografica? E c’è una fotografia, un quadro che ti ha colpito a tal punto da modificare il tuo immaginario?
La mia prima memoria fotografica, in senso lato, sono le foto scattate da mio papà ai miei compleanni, da bambina. Mentre parlando di una fase più “matura” del mio percorso e quindi più studiata, c’è di certo l’incontro con la fotografia di Sarah Moon.

Qual è stata la tua prima macchina fotografica? E l’ultima? Qual è il tuo rapporto con il digitale?
La mia prima macchina fotografica erano le usa e getta Kodak, poi è sopraggiunta la digitale, una Canon 400D (un giocattolino in confronto a quanto un digitale possa rendere). La pellicola mi ha sempre entusiasmata di più, forse perché somiglia molto di più alla pelle, a qualcosa di vero, di vivo, di consistente. Scatto con una Kiev medio formato, una Polaroid sx70 e da poche settimane con la vecchia Pentax di mio nonno.
Il tema del nudo femminile è certamente fondamentale nelle tue fotografie, un nudo lontano dall’esser fine a se stesso, che è anche un mettere a nudo un’anima, un disarmare. Viene naturale chiederti di parlare di questo tema, di cosa significhi, della necessità di fotografare, fuori dalle  restrizioni da parte di Flickr e bacchettoni vari.
L’inquisizione su Flickr all’inizio era quasi divertente, perché palesemente ipocrita  (i social network sono fatti per intrallazzare e lo dico io che proprio per questo nemmeno ho Facebook), poi è diventato piuttosto fastidioso. È stato difficile, sin dall’inizio, per me, far valere la mia idea e la mia immagine di nudo, mantenermi sempre su quella linea sottile che divide il nudo dal volgare, il corpo dal banale. Ed è bello, parallelamente alla santa inquisizione flickriana, il fatto che di questo “equilibrismo” io sia stata da subito lodata e apprezzata, dalle donne soprattutto, il che sbaraglia immediatamente la faciloneria del “ti fanno i complimenti perché sei carina e svestita”. Per me la fotografia è un mezzo estremamente evocativo :le immagini che produco spesso sembrano ricordi, sogni, e come tali per me devono essere il più possibile prive di connotati spazio-temporali precisi. Il nudo mi consente di decontestualizzare il soggetto inserendolo in un contesto epifanico piuttosto che geografico. La pelle, poi, per consistenza e tonalità, è per me molto più appagante per i riflessi e le ombre che riesce a creare, visto il mio quasi esclusivo uso di luce naturale.

Le tue modelle hanno un nome, sono più di un corpo, le tue fotografie raccontano anime, storie, atmosfere che vivono per un attimo. Come scegli i tuoi soggetti e cosa cerchi in loro? Questo ti è chiesto proprio per una certa qualità dei tuoi lavori, ovvero la capacità di raccontare non solo delle loro anime, ma anche di te.
Io fotografo solo ciò e quindi chi, mi piace. I soggetti delle mie foto sono quasi tutte persone a me vicine o comunque donne (e qualche volta uomini) che mi hanno attratta al punto da volerne prendere un pezzo e raccontarlo. Quando ritraggo qualcuno spero sempre di riuscire a tirarne fuori un’immagine che, pur nella sua non totale naturalezza (nel senso di vita vera) possa essere uno specchio per il soggetto stesso, qualcosa in cui si possa riconoscere. E chiaramente questo processo avviene più facilmente ritraendo coloro che conosco intimamente.

Qua e là nei tuoi lavori, si nota un tuo delicato richiamo alla dimensione infantile e accogliente della famiglia, un riferimento costante, pur sottovoce, ai legami e agli affetti. In più hai di recente iniziato una serie con  la macchina fotografica di tuo nonno, un tributo sentito e personale. Ce ne parli un po’?
Mio nonno mi ha lasciata poche settimane fa. Avevo con lui un rapporto viscerale, di amore assoluto. Nonostante questo legame, lui non mi aveva mai prestato la Pentax con cui aveva scattato tutta la vita. Pochi giorni prima di morire me l’ha regalata, mettendomi in mano non solo un nuovo strumento (meraviglioso) ma anche un’eredità, un immaginario nuovo, il suo, da sommare al mio. Da lì mi è venuta l’idea e la voglia di creare una serie utilizzando pellicola in bianco e nero, i cui soggetti fossero una somma del suo mondo e del mio modo di guardarlo, utilizzando atmosfere, ma anche oggetti, abiti, luoghi, situazioni che mi riportassero ai suoi anni e alla sua vita, pur in scene che siano autenticamente mie. Anche per questo sarà una serie che vedrà anche alcuni soggetti maschili.
La tua più grande soddisfazione da fotografa? E la delusione?
Una delle più grandi è stata sicuramente l’aver dato vita, con i miei altri tre compagni (Andrea Colombo, Elena Vaninetti e Gabriele Chiapparini) al progetto Fourlines. La delusione è probabilmente vivere in un paese e in un’epoca in cui la fotografia per come la intendo io (essenzialmente: bella) è davvero poco promossa e tutelata.

Quali sono i tuoi nuovi progetti per il futuro?
Ancora non lo so. Il mio lavoro è molto istintuale e varia a seconda dei frangenti e delle opportunità. Vedremo.
Tra i tuoi scatti si scopre anche un tributo a Edward Hopper, da cui riprendi l’uso della luce, perfetto e fondamentale in molti dei tuoi lavori. Si tratta di un progetto a lungo termine o più forse di un richiamo rintracciabile a più ampio respiro? E oltre al citato Hopper, quali altre sono le tue ispirazioni, i fotografi, i pittori, gli artisti che hanno segnato e influenzato il tuo gusto estetico?
Hopper è un punto di riferimento che visibilmente mi condiziona e, come hai detto tu, è più un richiamo che emerge maggiormente in alcuni scatti, piuttosto che un progetto in senso stretto. Per lo stesso motivo l’altro punto di riferimento pittorico fondamentale è sicuramente Caravaggio e l’arte classica in generale.  È sempre difficile parlare di chi siano i miei fotografi di riferimento: sono innumerevoli gli artisti che stimo e che seguo e in larga parte anche poco conosciuti (in questo Flickr è una piattaforma di condivisione ottima). Dovendone scegliere uno, oltre la già citata Sarah Moon, direi sicuramente Paolo Roversi.

Tra i fotografi della tua generazioni, chi credi sia da tenere d’occhio?
Lina Sheynius, Alison Scarpulla, Aaron Feaver, Jhoan (Visuell Afasi su Flickr, mi sfugge il cognome) e molti altri. Guardate tra le mie favorite su Flickr!
Se Anna fosse un film, quale sarebbe il regista, quale gli attori e quale la colonna sonora?
Oddio, domanda da un milione di dollari. Forse Michel Gondrym o Sofia Coppola. Per la musica è davvero impossibile decidere, servirebbe una canzone diversa di un gruppo diverso per ogni scena.
Dopo l’esperienza FourLines, per dove vorresti partire?
Un luogo caldo, assolato e colorato.
Anna in un film, un libro e una canzone.
Eternal sunshine of a spotless mind (o Stand by me), Oceano mare di Baricco e There there dei Radiohead.

Ringraziamo Anna per la disponibilità e vi invitiamo a sfogliare il suo Flickr.