Colazione da Tiffany

Oggi viene da fare un passo indietro, un salto lungo quarantanove anni. Siamo nel 1961 ed una sublime Audrey Hepburn mangia croissant davanti alla vetrina di Tiffany. Ha i capelli raccolti, gli occhialoni neri, i guanti di raso. È una donna della sera prima, un po’ assonnata, un po’ confusa. Una donna in abito scuro e collana di perle, che si perde nel luccichio dei diamanti di fronte, con in testa un diadema di pietre preziose.

Colazione da Tiffany narra la storia di Holly Golightly, che vive a New York con un gatto senza nome ed un letto spesso sfatto. Ha abitudini malsane, vestiti costosi, coraggio da vendere. Passa di festa in festa, di scapolo in scapolo. Il suo scopo è quello di trovare un uomo ricco e di sposarselo. Ma non tutto va come ci si aspetta. Nel mezzo del nulla arriva Paul Varjak, giovane scrittore di grido, che le scombina le carte e gliele sparpaglia tutte sul tavolo.

Gli ingredienti per il successo ci sono tutti: due protagonisti bellissimi, una storia accattivante e quel Moonriver, come colonna sonora, che penetra la pelle. Lui, George Peppard, ha due occhi azzurri azzurri che poco hanno da invidiare a quelli del ben più noto Paul Newman, mentre lei, Audrey Hepburn, icona di gusto e di stile, ha semplicemente l’eleganza del cigno. La vedi alle nove di mattina, imbambolata di fronte ad una gioielleria, e non vorresti cambiarle nulla. La guardi e pensi che sia bellissima, stonata rispetto al resto, ma comunque bellissima. Le perdoni il vestito, i guanti, gli occhiali da sole. Le perdoni tutto. Audrey può, pensi, lei può tutto.